Da ormai vent’anni la dipendenza è universalmente riconosciuta come “malattia”, grazie alla individuazione dei meccanismi neurobiologici, psicologici, comportamentali e culturali che la caratterizzano ma questo assunto è ancora ben lontano dall’essere compreso e assimilato dalla nostra cultura sociale.

Quando la malattia è intesa come una colpa

La malattia in generale non suscita sempre compassione e comprensione: si pensi alle malattie veneree, all’AIDS, all’obesità, a tutte le malattie che sono conseguenza di stili di vita “colpevoli”, come il cancro ai polmoni per i fumatori e le malattie metaboliche per i grandi mangiatori sedentari. Senza contare che nella cultura giudaico-cristiana la malattia è stata spesso legata al castigo di Dio per i peccati: si pensi ai lebbrosi, rifiutati dalla società perché “impuri” anche moralmente, o alla interpretazione che veniva data nei secoli scorsi alle epidemie.

Non fa eccezione in tal senso la dipendenza patologica per cui il comportamento del paziente può assomigliare a quello di un vizioso: la droga procura piacere e per quel piacere viene trascurato ogni dovere verso la famiglia, lo studio, il lavoro. Le attività utili vengono trascurate per dedicarsi alla droga e questo comportamento viene ripetuto e continuato anche quando provoca danni e sofferenza, dimostrando egoismo e irresponsabilità.

Lo stigma nelle dipendenze

La nostra cultura sociale non è poi necessariamente orientata all’accoglienza, all’inclusione, al rispetto del diverso, all’empowerment dei più fragili e chi non vuole aprirsi a visioni diverse, ha buon gioco nell’ enfatizzare i comportamenti insopportabili, fonti di danno e sofferenza, dei tossicodipendenti. 

Considerare chi soffre di una dipendenza un vizioso, uno che se l’è cercata alimenta quindi lo stigma inteso come quel meccanismo della società umana volto a differenziare i buoni dai cattivi e ad attribuire valore ai comportamenti sociali sulla base dell’appartenenza ad un gruppo oggetto di condanna, senza la necessità di conoscere la persona.

Quando la tossicodipendenza è vista sotto questa prospettiva, la conseguenza è che il “tossico” dovrà essere rieducato, dovrà prendere coscienza dei danni che sta provocando a sé e agli altri, riallinearsi ai valori più importanti come il senso di responsabilità e del dovere, adottare comportamenti adeguati e riprendere le attività più utili. 

Per ottenere questo risultato bisognerà sostenerlo con un controllo molto stretto, fare in modo che interrompa le frequentazioni di luoghi e di persone non adatte e che le sue giornate siano ben organizzate e piene di attività sane e confrontarlo frequentemente con il suo modo di condursi. 

Lo stigma ostacola il percorso di cura

Gli verrà richiesto di accettare le regole che gli vengono date, affidandosi a chi gli può dire come è meglio vivere ogni aspetto della sua vita: non solo la tossicodipendenza sarà oggetto di osservazione, ma anche come lavora o studia, come si diverte, che amici ha, come vive la sessualità, come mangia. 

Il modello dell’uomo virtuoso diventa l’obiettivo contrapposto al vizio. Molto spesso, in questa prospettiva, si ritiene indispensabile che il tossicodipendente venga accolto in una comunità, dove tutte le funzioni di confronto e controllo possono essere svolte in modo più efficace.

Il cambiamento viene verificato con l’osservazione del comportamento: l’adesione alle regole dell’ex tossicodipendente rende evidente la sua adesione al nuovo modello di vita. 

Tuttavia, il cambiamento che viene prodotto con questo meccanismo è motivato dalla convenienza di aderire a modelli socialmente approvati, dall’opportunità di smarcarsi da una minoranza disprezzata e difficilmente produce progetti di vita autentici, originali e soprattutto duraturi. Non si può mai avere la certezza di quanto il modello sia stato davvero interiorizzato e fatto proprio e non sia in realtà un modo astuto per riconquistare la “libertà” e tornare a drogarsi.

Inoltre, il più delle volte, il forte (pre)giudizio negativo collettivo spinge la persona con dipendenza patologica a nascondersi, isolarsi ritardando così l’accesso alle cure. Gli interventi educativi devono dunque riuscire ad accedere alle dimensioni emotive e affettive meno consce e meno controllate per poter essere efficaci e indurre cambiamenti sostanziali e duraturi.

Il nostro impegno contro lo stigma

IEUD mette la massima cura nel proteggere dallo stigma i suoi clienti attraverso la più alta attenzione alla riservatezza; allo stesso tempo impegna tutte le proprie energie nel confronto con i pazienti ed i loro familiari, nel far comprendere che la dipendenza rappresenta un funzionamento molto più diffuso e sottile di quanto si pensi e, in una certa misura, interessa tutti gli esseri umani. 

La presa di coscienza che ogni persona cerca una risposta al senso della propria vita e che relazioni affettive, eventi di vita, esperienze e pressioni ambientali costituiscono una sfida per ciascuno, permette di guardare all’altro con maggiore tolleranza e di tra-guardarne le similitudini. Su questa base è possibile, poi, sviluppare l’intervento tecnico di cura della dipendenza, avendo superato pregiudizi, discriminazioni e imposizione di false soluzioni