Schede informative per comprendere meglio la dipendenza da droghe e i comportamenti di dipendenza

Le dipendenze sono spesso assimilate a un vizio, a una debolezza di carattere, al non saper resistere, al non avere volontà; allo stesso tempo si pensa comunemente che chi ha una dipendenza “se la cerchi”, che in un certo senso lo voglia, cioè eserciti una volontà distorta.

La volontà è quindi spesso chiamata in causa nell’addiction.

In effetti, non è facile trovare le ragioni di certi comportamenti soprattutto quando sono distruttivi o dannosi per sé stessi e hanno ricadute negative su altri: la spiegazione grazie alla “volontà” è invece molto semplice e comoda. Infatti si pensa che la volontà dipenda dalla persona e quindi non richiede di andare a cercare cause altrove, magari mettendo in discussione relazioni affettive e familiari, situazioni lavorative o contesti problematici. In più è considerata essere sotto il controllo razionale della persona, quindi non richiede di tenere in considerazione aspetti emotivi e irrazionali, questioni costituzionali o genetiche, dimensioni inconsce e automatismi reattivi. 

Considerare l’addiction una questione di volontà permette di immaginare soluzioni facili e immediate: basta “voler smettere” e tutto si risolverà. Il mito dell’onnipotenza, della possibilità di controllare completamente il proprio essere e il proprio destino “basta volerlo fortemente” è profondamente radicato nella cultura sociale, che vede il mondo come un territorio di conquista, di grandi opportunità che bisogna solo cogliere, basta impegnarsi. Allo stesso tempo, se il problema non si risolve, attribuire il fallimento alla volontà personale dà la possibilità di indicare un unico colpevole e di deresponsabilizzare tutti gli altri: anche in questo caso chiamare in causa la volontà personale è molto comodo.

Spesso le persone con problemi di dipendenza condividono questo punto di vista proprio perché è una visione radicata nella cultura sociale: anche loro attribuiscono alla loro scarsa volontà il non riuscire a smettere, oppure pensano che se ci metteranno tutta la “buona volontà” potranno uscire dalla dipendenza: spesso si sente dire “le altre volte che ho provato a smettere non ero davvero convinto, invece questa volta…”. Questo presupposto non è sempre utile, perché alimenta il senso di colpa e di incapacità se si fallisce e induce uno scoraggiamento che toglie motivazione e fiducia nella possibilità di cambiare.

Insomma, la “volontà” unisce tutti, la persona con addiction e chi gli sta intorno, nell’individuare una comoda causa del problema e una facile strada per la soluzione. 

Spesso anche i curanti confermano questa credenza errata. Per l’addiction vengono ciclicamente offerte soluzioni “miracolose”, pubblicizzate come “definitive”, ancora più attraenti se applicabili in tempi brevi e attraverso macchinari tecnologici che escludono la “volontà” della persona. Ma, paradossalmente, le tecniche che non richiedono al paziente di essere attivo, amplificano il problema della volontà. Infatti, la tecnica promette di agire nel “profondo” della persona, risolvendo definitivamente il problema “nel cervello”, senza bisogno che la persona partecipi e lasciando quindi in totale evidenza la volontà della persona: l’eventuale ricaduta non potrà essere attribuita a null’altro che alla scelta personale, quindi alla cattiva volontà, alla debolezza di carattere, dato che le “anomalie” biofisiche sono state risolte dal mirabolante intervento tecnico.

Il fenomeno della ricaduta dopo interventi di “soluzione” del problema, descritto dagli psicologi come “effetto della violazione dell’astinenza”, fa sì che la persona che si è disintossicata e che ha fatto terapie speciali per non usare più sostanze, senta il peso della ricaduta come un fallimento personale, particolarmente pesante soprattutto se le cure “miracolose” sono state caricate di aspettative da parte del suo contesto e magari hanno richiesto sforzi economici, e si senta profondamente scoraggiato al punto di abbandonare ogni percorso di cura.

Purtroppo la situazione è un po’ più complicata. 

In generale sopravvalutiamo la forza della nostra volontà e ci piace pensarci razionali e capaci di controllare completamente le nostre azioni. In realtà molti studi hanno dimostrato che le scelte, le decisioni, gli orientamenti raramente sono presi perché si è valutato freddamente la situazione e si sono confrontati logicamente pro e contro. La maggior parte delle volte ci si sente spinti in una direzione da preferenze non razionali ed emozioni di segno positivo o negativo, che poi vengono “rivestite” di ragionamenti logici. Questo è stato dimostrato avvenire nella vita personale, così come nelle scelte politiche e economiche: uno psicologo, Daniel Kahneman, ha vinto il premio Nobel per l’economia per i suoi studi sul pensiero irrazionale che sostiene le speculazioni finanziarie.

Il modo in cui prendiamo le decisioni, dunque, coinvolge parti importanti del cervello che hanno compiti diversi: una parte emozionale, che ha la funzione essenziale di attivare e spingere verso l’azione e una parte intenzionale che ha soprattutto la funzione di controllare e frenare quella spinta per orientarla verso le modalità più adeguate. Va tenuto conto, comunque, che la potenza della spinta irrazionale è sempre superiore alla forza del controllo razionale, a meno che non si sia molto allenati ad autocontrollarsi; la spinta irrazionale preme senza limiti di tempo, mentre la tenuta dell’autocontrollo è sempre limitata, esattamente come avviene nell’esercizio fisico, in cui è possibile tenere sollevato un peso per un po’, ma non all’infinito.

Nell’addiction, gli squilibri biologici e della regolazione emotiva determinati dalle droghe nel cervello fanno sì che la parte razionale funzioni in modo meno efficiente, così che le spinte irrazionali appaiono ancora più forti e praticamente sono molto meno controllabili. In questo senso, la volontà, cioè il controllo intenzionale e razionale del comportamento, è compromessa e non riesce a contrastare efficacemente le spinte emotive che fanno tornare all’uso di sostanze con diversi meccanismi: la “voglia” incontenibile (VEDI SCHEDA CRAVING), il pensiero ossessionante, la tensione emotiva, le false ragioni come “ solo una volta e poi basta”, “è solo per tirare il fiato un momento”, “non se ne accorgerà nessuno”, “inutile che mi sforzi, non ne uscirò mai”.


Quindi, nella cura dell’addiction, anche se l’impegno intenzionale a smettere è indispensabile perché bisogna che la persona aderisca consapevolmente e in modo collaborativo al percorso, non ci si può fidare troppo della “buona” volontà, perché è indebolita e da sola non ha forze proporzionate per raggiungere il risultato.