Dagli eterni Super Mario Bros e Pokémon, dallo storico Pac-Man, dal rompicapo Tetris a Grand Theft Auto (GTA), Fortnite e Call of Duty: a partire dagli anni ‘80 i videogiochi sono diventati un consumo di massa, accrescendo sempre più il loro pubblico, fino a “normalizzarsi” nella vita di molti. Dalle prime console Nintendo ai moderni smartphone e playstation di ultima generazione, sono un mezzo di intrattenimento, condivisione e competizione, e talvolta di apprendimento. High Score, il documentario Netflix della francese France Costrel racconta la storia dei videogiochi e dei loro primi creatori, di come i primi consumatori, uomini e donne, fossero ipnotizzati da quei nuovi schermi colorati e interattivi. Oggi, quasi ogni bambino o adolescente sa giocare a Clash of Kings sul cellulare, a Fortnite sul computer, o ad Assassin’s Creed sulla playstation, determinando così la decisione da parte dell’OMS di riconoscere il “gaming disorder” come una patologia. 

Che cosa è Gaming Disorder?

Oggi più che mai fonte di dibattito all’interno della comunità scientifica, la scelta di trattare l’abuso dei videogiochi come una dipendenza è il risultato di diversi studi che delineano una serie di comportamenti che incidono negativamente sull’equilibrio fisico e mentale del giocatore. Secondo l’OMS, il Gaming Disorder si manifesta quando si concede al gioco una priorità maggiore rispetto alle altre attività quotidiane e il crescente bisogno di giocare provoca conseguenze negative sulla convivenza in famiglia e in società. Tra i nove criteri scelti dall’OMS per definire una dipendenza da gioco, tra cui l’assuefazione e successivamente la difficoltà a staccarsi dallo schermo, se ne devono manifestare almeno cinque per una durata di dodici mesi, per poter parlare di dipendenza. Tra gli altri sintomi vi è una tendenza a isolarsi se impossibilitati a giocare, o a mentire sul tempo trascorso con la console in mano. 

Perché piacciono i videogiochi?

I videogiochi basano il loro design e le loro storie su tre bisogni psicologici fondamentali: quello di competenza, di autonomia e di relazionalità. In altre parole, le persone hanno bisogno di sentirsi soddisfatti e competenti nel loro ambito, di essere gli unici veri agenti delle proprie scelte e azioni, e di creare relazioni stabili e positive con gli altri. Soddisfacendo questi bisogni, si riuscirebbe a condurre una vita fatta di scelte e non di costrizioni, e quindi una vita potenzialmente felice. La realtà virtuale dei videogiochi non si allontana molto da quella appena descritta: nei videogiochi ogni scelta è autonoma, libera, porta a un elevato livello di soddisfazione personale – in caso di sconfitta si può riprovare infinite volte fino al raggiungimento della vittoria – ed è possibile creare legami di complicità attraverso le modalità di multiplayer, che connettono migliaia di giocatori da tutto il mondo. 

Non solo nocivi

Con l’avvento del Coronavirus e la chiusura delle scuole, molti ragazzi si sono collegati al mondo virtuale e dei videogiochi online e in console. Nella precarietà che ci caratterizza oggi e che porta con sé un sentimento comune di solitudine forzata, l’OMS ha deciso di collaborare con diversi produttori di videogiochi per creare il programma #PlayApartTogether, pensato per far sentire i ragazzi un po’ meno soli. In un periodo come questo, poter viaggiare per una qualche ora in un mondo fantastico può essere un’alternativa allo stress e alla tristezza. Ci sono poi diversi videogiochi che usano un potere educativo per istruire i ragazzi in materie come la storia o la sociologia. Age of Empires, per esempio, è una serie di videogiochi strategici a tema storico che coinvolge il giocatore in guerre e dispute tra civiltà antiche. Oppure Assassin’s Creed Origins, che presenta una modalità “discovery tour” che accompagna il giocatore alla scoperta dell’Antico Egitto, e Assassin’s Creed Odyssey, in cui l’esplorazione interattiva avviene attraverso le terre dell’Antica Grecia.

Sono dipendente?

La maggior parte dei ragazzi vicini al mondo dei videogiochi non diventa dipendente. A confermarlo sono una serie di studi e ricerche scientifiche che restringe la cerchia delle vittime del gaming disorder a realtà asiatiche, dove i videogiochi ricoprono un vero e proprio ruolo egemone nella cultura del continente. Ad ogni modo, tendere completamente verso un estremo o l’altro, nel dibattito che mette a confronto dannosità e utilità dei videogiochi, sarebbe sbagliato. Come per ogni cosa, i videogiochi possono a volte essere utili, a volte dannosi. Pensandoci bene, la soddisfazione di quei tre bisogni psicologici (competenza, autonomia, relazionalità) attraverso i videogiochi, è reale nei limiti della definizione di “realtà”: quando lo schermo si spegne, il giocatore è di nuovo solo, con nuove e reali scelte da compiere, e senza avere veramente vinto nulla. Il mondo virtuale dei videogiochi può, al massimo, contribuire a comunicare una brevissima percezione di competenza, autonomia e relazionalità. Perciò è importante riuscire a distinguere le sensazioni e le emozioni provocate da un’esperienza vera da quelle avvertite durante una partita online o in console, e affacciarsi alla finestra del mondo reale quando lo schermo prova a imprigionarci.

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