Gli antidepressivi sono una realtà quotidiana e una cura necessaria per molte persone. Sono principi attivi che permettono di curare diversi disturbi dell’umore: in particolare la depressione maggiore, il disturbo ossessivo compulsivo, i disturbi da attacco di panico e i disturbi d’ansia.
Per il loro meccanismo (che approfondiremo nell’articolo) e per il tipo di disturbi che devono curare, vengono normalmente somministrati per lungo tempo: anche per anni, se non vi sono particolari effetti collaterali.
In parte, tempi di somministrazione così lunghi dipendono dal fatto che l’uso prolungato nel tempo dell’antidepressivo favorisce il recupero funzionale e morfologico di aree neuronali poco sviluppate (nella depressione, ad esempio, si sono riscontrati delle minime anomalie morfologiche nella grandezza di alcune regioni del lobo limbico, in particolare dell’ippocampo). Inoltre, occorre ricordare che l’antidepressivo non agisce immediatamente, ma occorre una latenza di almeno due/tre settimane affinché ottenga l’effetto voluto.
Di fronte a questa prospettiva il paziente spesso si spaventa: teme di sviluppare una vera e propria dipendenza da farmaci, di non essere più sé stesso, di restare legato a vita al farmaco.
Ma quanto è fondata questa paura?
Come vedremo, gli antidepressivi sono molecole sostanzialmente sicure da questo punto di vista – molto di più di altri tipi di farmaci come gli ansiolitici, ad esempio! Capire meglio come funzionano e in che senso il paziente potrebbe “diventarne dipendente” permette sia di inquadrare meglio gli eventuali rischi (è bene ricordare che nessun farmaco ne è esente) che di limitarli al massimo.
La prima forma di prevenzione di eventuali problemi legati all’uso di antidepressivi resta, ovviamente, il rispetto scrupoloso delle indicazioni del proprio medico curante.
Come funzionano gli antidepressivi?
Vediamo quindi il funzionamento degli antidepressivi dal punto di vista tecnico.
Nel nostro sistema nervoso centrale esistono una serie di recettori che regolano l’azione dei neurotrasmettitori naturalmente coinvolti nel controllo degli stati emotivi, del ritmo sonno veglia e dell’appetito. Il meccanismo si basa su un delicato equilibrio nella produzione di molecole come serotonina, noradrenalina e dopamina; è lì che gli antidepressivi vanno ad agire, inibendo o stimolando queste azioni.
Ne esistono diverse categorie. Le più note sono:
- I triciclici (nortriptilina, imipramina, clomipramina)
- gli inibitori del re-uptake della serotonina (citalopram, sertralina, paroxetina, fluvoxamina, fluoxetina)
- gli inibitori del re-uptake della noradrenalina e serotonina (venlafaxina, duloxetina)
Altre categorie, che hanno indicazioni più specifiche, vengono tendenzialmente usate in associazione con i farmaci sopra citati.
Ogni singola molecola ha caratteristiche peculiari che la rendono diversa dalle altre. Ad esempio, si differenziano per la via di assorbimento, la durata dell’azione del farmaco nel sangue, per come viene metabolizzato dall’organismo, per la presenza di altre molecole derivanti da quella iniziale che rimangono in circolo nel tempo, per il tempo e la via di eliminazione dall’organismo.
Inoltre, ogni singola molecola prende come bersaglio dei recettori specifici e/o presenta altre proprietà che la rendono idonea per un determinato tipo di disturbo e non per altri.
Come già scritto, gli effetti non sono immediati: affinché avvengano delle modifiche nei recettori pre e postsinaptici (presenti sui nostri neuroni), utili per regolare serotonina, dopamina, adrenalina e gli altri neurotrasmettitori, possono servire anche due/tre settimane.
Gli antidepressivi possono causare dipendenza?
A molti l’idea di assumere un farmaco antidepressivo per curare un disagio psichico non piace. Riferiscono di avere “paura di dipendere dal farmaco”. È comprensibile; si parla di una sostanza che agisce sulle emozioni e sul nostro modo di percepirci. Tuttavia, il rapporto di fiducia con il proprio medico dovrebbe aiutare a superare questo timore e permetterci di avvalerci di ciò che può farci stare e vivere meglio.
I tempi di assunzione lunghi spaventano, ma si pensi ad esempio a cardiopatici e diabetici, o a chiunque altro abbia patologie croniche: anche loro “dipendono da un farmaco” e lo prendono perché sanno che grazie a quella terapia possono avere una vita normale!
Il tipo di “dipendenza” di cui si può parlare in relazione agli antidepressivi in realtà è sostanzialmente questo; non ci troviamo di fronte a sostanze che sviluppano effetti come tolleranza o craving, quegli effetti cioè tipici delle tossicodipendenze.
Gli antidepressivi di oggi hanno un buon profilo di efficacia e sicurezza, si tratta solo di trovare la terapia il più personalizzata possibile, sulla base di una diagnosi corretta e secondo le esigenze della persona.
Per questo motivo bisogna essere in due, il paziente e il medico.
Ovviamente nessun farmaco è esente da effetti collaterali. Nel caso degli antidepressivi, se vengono presi a giusto dosaggio non se ne avranno molti, saranno generalmente transitori (due settimane circa) e verranno gestiti all’interno di una buona alleanza con il medico.
Le attenzioni necessarie durante la sospensione degli antidepressivi
Paziente e medico, invece, dovranno fare attenzione al momento della sospensione della terapia. Se abbiamo assunto un antidepressivo per un tempo lungo e si decide di sospenderlo occorre sempre consultare uno specialista, che ci aiuterà a diminuire gradualmente la dose del farmaco. I tempi e i modi per farlo vanno condivisi con il curante.
Molte persone decidono di autosospendersi le cure e sperimentano, in modo sgradevole e talvolta rischioso, quelli che vengono chiamati sintomi da sospensione del farmaco.
Attenzione: molti associano queste reazioni a una dipendenza, ma non è così. In questo caso non significa che la persona è dipendente dal farmaco, ma si tratta di una fisiologica reazione del nostro organismo ad una improvvisa mancanza della molecola a livello dei recettori.
Vediamo, infatti, cosa avviene nel caso di interruzione improvvisa:
Prendiamo come esempio un antidepressivo appartenente agli inibitori del re-uptake della serotonina.
Questa molecola lavora nello spazio tra due neuroni cercando di mantenere il più possibile la molecola in quello spazio. La presenza di questo neurotrasmettitore nello spazio sinaptico permette ai neuroni di comunicare meglio tra loro e alla persona di percepirsi più serena e meno triste.
Per mantenere a lungo la serotonina tra i due neuroni viene bloccato il meccanismo di rientro della molecola nel neurone presinaptico (dove poi viene degradata). Avendo tanta serotonina, nel neurone postsinaptico (ricevente diciamo), assistiamo ad un aumento dei recettori per la serotonina in modo da trasmettere meglio il messaggio.
Se interrompo improvvisamente tale meccanismo, non assumendo più il farmaco, i neuroni vanno in tilt e la persona può avvertire sgradevoli sintomi come vertigini, svenimenti, improvvise scosse elettriche, cefalee, stanchezza, sintomi simili ad uno stato influenzale. Sul piano emotivo potrebbe sperimentare cambi improvvisi dell’umore, irritabilità, insonnia. Tutto questo repertorio di sintomi si può evitare se, con il medico, si decide di sospendere gradualmente la terapia.
Attenzione: la gradualità della diminuzione di somministrazione del farmaco è specifica per ogni singola molecola. La paroxetina, ad esempio, è un buon antidepressivo ma ha delle caratteristiche di azione che lo rendono più a rischio di una sindrome da sospensione e quindi occorre, ad esempio, passare da una somministrazione in pastiglie ad una in gocce, scalando molto gradualmente.
Altri effetti che potrebbero far pensare (erroneamente) a una dipendenza:
Un altro timore dei pazienti nasce dal fatto che, una volta sospeso il farmaco, potrebbero tornare i sintomi per cui si ha assunto l’antidepressivo. Anche in questo caso pensare di essere dipendenti è una distorsione del pensiero dato che, se si soffre di un disturbo depressivo serio, è possibile che il farmaco debba essere assunto per molto tempo. Inoltre, il poter stare bene per un certo periodo e poi avere una ricaduta può essere intrinseco nell’andamento della malattia stessa.
Se il principio attivo che si assume non crea grossi disagi (gli effetti collaterali) ma permette di stare meglio, non ci troviamo di fronte a una dipendenza ma ad una cura. La cura riesce a far percepire gli eventi quotidiani in modo meno grave, meno ansioso e in modo più lucido. È importante ribadire che la persona rimane sempre la stessa.
In una dipendenza vera e propria, l’individuo concentra tutta la sua attenzione nel cercare di assumere la sostanza da cui è dipendente: aumenta continuamente le dosi, poco a poco cambia completamente la sua personalità e peggiora la sua relazione con il mondo, con gli affetti principali e con il lavoro. Nulla di tutto questo avviene con gli antidepressivi.
In altri casi, chi assume queste terapie potrebbe avere una certa resistenza psicologica ad abbandonarle. La persona teme di abbandonare la “stampella chimica” e di non essere in grado di “farcela” senza. Chi si trova in questa condizione dovrebbe essere aiutato a rinforzare la propria autostima attraverso il giusto sostegno psicologico.
Esistono rischi di sovradosaggio?
Infine, ricordiamo che gli antidepressivi non sono molecole che consentono di eccedere nella loro somministrazione. Se si esagera nel dosaggio si rischiano concretamente sintomi tutt’altro che lievi come agitazione severa, crampi muscolari, la confusione, tremore, diarrea, sudorazione, rialzo febbrile, convulsioni, aritmie cardiache e perdita di coscienza (sindrome serotoninergica, da eccesso di assunzione o intossicazione da inibitori del re-uptake della serotonina).
Chi si affida a questi farmaci, in altre parole, non cercherà di assumerne dosi maggiori alla ricerca di euforia o sballo (come succede tipicamente con le sostanze che rischiano di dare dipendenza). Di solito, dietro a un’ingestione massiccia di un antidepressivo c’è purtroppo un intento suicidario, che ovviamente rappresenta un’urgenza medica che va trattata e valutata clinicamente in ambiente protetto.
Che differenza c’è fra antidepressivi e ansiolitici?
Chi ha vissuto attacchi di panico o soffre di ansia sa che in questi casi possono essere prescritti anche gli ansiolitici. Viene spontaneo, quindi, chiedersi quale sia la differenza.
I principi di funzionamento, in realtà, sono totalmente diversi. Nella categoria degli ansiolitici, detti anche benzodiazepine e sedativi ipnotici, troviamo molecole che hanno come bersaglio dei recettori diversi, che hanno un’azione immediata e tendenzialmente rimangono nel sangue molto meno tempo.
Questa categoria di farmaci non dovrebbe mai essere prescritta senza una corretta valutazione medica perché, proprio per le caratteristiche descritte, sono spesso farmaci di abuso e ad alto rischio di sviluppo di dipendenza.
Già dopo solo due settimane di uso degli ansiolitici, infatti, la persona sviluppa tolleranza verso quella molecola e sente di dover aumentare il dosaggio per avere lo stesso effetto . Se sospende il farmaco avverte il malessere psicofisico tipico dell’astinenza e tende ad assumere atteggiamenti di ricerca compulsiva del farmaco (craving).
Le raccomandazioni dell’OMS infatti sottolineano che l’uso degli ansiolitici dovrebbe essere circoscritto a situazioni in cui ci sia effettivo bisogno, per breve tempo e sotto monitoraggio clinico.
In conclusione…
Tirando le somme, possiamo affermare che le caratteristiche biochimiche degli antidepressivi non favoriscono una vera e propria dipendenza. Tuttavia, per evitare gli effetti collaterali, la persona che accede ad una terapia farmacologica con qualsiasi categoria di antidepressivi deve:
- affidarsi ad uno specialista di fiducia
- ricevere una corretta diagnosi
- conoscere approfonditamente la sua malattia e i suoi sintomi, il suo andamento nel tempo e la sua prognosi
- essere informato sugli effetti collaterali della terapia che andrà ad assumere e i rischi connessi alla sospensione e al sovradosaggio
- comunicare al medico l’insorgenza di segni e sintomi nuovi e sospetti
- affiancare dove possibile un supporto psicologico per affrontare l’iter della malattia e l’eventuale sospensione dei farmaci (se il soggetto non ne avesse più necessità clinica)
Se riconoscete di avere un problema che potrebbe essere trattato con antidepressivi, un malessere che va dalla tristezza, all’insonnia, all’irrequietudine (fino ad un vero e proprio attacco di panico), è fondamentale che vi rivolgiate ad uno specialista che conosce a fondo questi farmaci, in modo che possa consigliarvi il rimedio con il principio attivo più adeguato al disturbo riportato.
La Redazione
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