Corpi seduti su metropolitane, su panchine, in locali, o in movimento, che camminano con la testa abbassata e lo sguardo fisso sullo schermo. Sempre connessi nel non-qui-non-ora, in un altrove rispetto a dove invece vivono i nostri corpi, corpi che talvolta sembra quasi portiamo in giro. Il guadagno è un’esperienza senza limiti di tempo e luogo dove tutto è accessibile e possibile.

Gratificazioni amplificate, irrealistiche, illimitate, che ne rendono difficile una capacità di uso controllato, proprio come per alcune sostanze.

Gli strumenti digitali sono indiscutibilmente parte utile, indispensabile e necessaria del nostro esistere, ma quello che forse è accaduto è conseguenza di una (inevitabile) impreparazione delle generazioni precedenti a trovare limiti, disfunzionalità, rischi nell’uso di strumenti così potenti e forse inizialmente sottovalutati o considerati solo positivamente per le possibilità di facilitazione culturale, protezione, controllo, divertimento. I device ci regalano passività (non devo fare niente: è il mondo che viene da me) e distrazione, ma creano una sorta di polarizzazione cerebrale: l’attenzione è sempre rivolta verso l’esterno. Un’attenzione breve, rapida, che ha a che fare con il circuito della dopamina nel nostro cervello, e la dopamina è un neurotrasmettitore coinvolto in tutti i fenomeni di dipendenza (anche quelli di dipendenza “sana”). Davanti allo smartphone tutto sparisce, anche noi con la nostra postura, il nostro respiro. È uno stato simil-ipnotico, né piacevole né spiacevole di per sé, ma che diventa un “automatismo” per il nostro cervello. Lo chiamano effetto-imbuto, e più l’esposizione è precoce, più ci si abitua a questa cascata di neuromodulatori in questa modalità troppo rapida e saturante, e questo fa perdere interesse verso qualunque altra attività.

I nostri adolescenti oggi, per la prima volta nella storia degli esseri umani, devono imparare a vivere, confrontarsi e crescere in due mondi diversi: quello reale e quello virtuale. Non possiamo insegnare ai nostri figli delle competenze digitali che loro hanno come una “lingua madre”, non imparata ma vissuta, ma dobbiamo ricordarci che le competenze emotive richiedono invece altri tempi e modi, e l’adolescenza è uno dei momenti fondanti la personalità.

Adolescenza deriva dal latino adolescere, che significa crescere: adolescente è colui che viene nutrito, adulto è colui che si è nutrito.

L’adolescenza è il progressivo cambiamento/crescita che porta alla cosiddetta età adulta: cambiamenti chimici, ormonali iniziati nella pubertà e che servono per completare e strutturare tutto l’organismo e il suo funzionamento, ma anche il cervello, in particolare la neo-corteccia prefrontale, cioè quella parte del cervello che si occupa delle funzioni esecutive: attenzione, controllo nell’espressione delle emozioni, decisioni. Funzioni esecutive proprio perché modellano, aggiustano la personalità affettiva più profonda attraverso le diverse esperienze relazionali con gli altri e con la cultura di appartenenza sullo sfondo. Così, per esempio, una cosa è essere arrabbiati o frustrati e provare un’emozione come la collera, una cosa diversa è l’agire, cioè esprimere tale emozione con azioni che possono danneggiare sé e/o l’altro.

Un già non facile processo di conoscenza e scoperta di sé può diventare caotico e frustrante, perché sul web i modelli di riferimento hanno spesso standard elevati (di bellezza, di denaro..) e il senso di insoddisfazione, l’irrequietezza, la depressione possono farsi strada, causando un senso di inadeguatezza costante, soprattutto nelle personalità più fragili o giovani.

Può diventare difficile accettare una realtà non gratificante e illimitata come è invece quella digitale, che invece appare come senza limitazioni, e che produce effetti simili a quelli di alcune sostanze, andando a saturare e a gratificare chimicamente il funzionamento cognitivo ed affettivo profondo.