Introduzione
L’addiction è definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come una “patologia cronica e recidivante”, considerando sia la lunghezza del periodo della vita della persona lungo il quale si estende il decorso della patologia stessa sia la frequenza delle ricadute dopo periodi di remissione.
Basterebbe questo per far comprendere come il ricovero e la disintossicazione, in quanto interventi puntuali e limitati nel tempo, non possano rappresentare una “soluzione definitiva” del problema.
In effetti, attualmente il ricovero e la disintossicazione sono utilizzati in una minoranza dei casi che vengono all’osservazione clinica e per finalità specifiche.
Il ricovero, inoltre, comporta un investimento notevole; che si svolga in regime privato e quindi con un onere economico non indifferente per il paziente, oppure in regime pubblico dove l’onere economico ricade sulla collettività, in ogni caso richiede un cambio del regime di vita significativo: interrompere il lavoro o gli studi eventualmente con la necessità di giustificare l’assenza con motivazioni magari generiche o imbarazzanti, affrontare un ambiente artificiale come la clinica che richiede adattamento, accettare limitazioni alla libertà di movimento e alla frequentazione dei familiari e conoscenti, sottoporsi a terapie e a controlli quotidiani. Spesso, una difficoltà deriva dal non riconoscersi negli “altri” pazienti e dal rifiuto di essere assimilati a soggetti visti come molto più gravi e più patologici: la funzione di “specchio” esercitata dagli altri ricoverati può spaventare. Sono molte quindi le condizioni che possono sollecitare resistenza e opposizione al ricovero; anche quando razionalizzate in fase pre-ricovero, durante l’esperienza concreta queste difficoltà possono ripresentarsi e acutizzarsi, e magari prendendo spunto da singoli e minimi episodi (un ritardo nell’assistenza, un incontro sgradevole con un altro ricoverato, una sbavatura nella gestione della struttura) determinare la decisione di abbandonare anticipatamente la clinica.
Vale la pena, dunque, fare un investimento sul ricovero se ci sono due basi solide: la conferma della motivazione (ovviamente escludendo i ricoveri salvavita attuati in urgenza, di cui trattiamo sotto) e la chiarezza delle aspettative. Un ricovero programmato è utile a condizione che la persona non sia troppo ambivalente (un po’ lo sarà per forza, data la natura della patologia) e soprattutto che riesca ad affidarsi ad un terapeuta che può rimotivarlo in caso di dubbi e crisi: una solida relazione terapeutica è condizione preliminare indispensabile per il ricovero. Inoltre, le aspettative devono essere realistiche sia nei confronti dell’ambiente e delle cure in regime di ricovero sia in termini di risultati attesi: non esiste “il” ricovero, ma una molteplicità di scopi per il cui raggiungimento è possibile utilizzare il ricovero come strumento. È quindi indispensabile avere ben chiaro per quale fine si procede al ricovero: pensare che sia la soluzione magica e totalizzante per una situazione vissuta come “non più accettabile” è una premessa che espone a delusione, frustrazione e risentimento.
Una terza base che deve essere solidamente organizzata è la collaborazione tra i curanti esterni, che si occupano della cura ambulatoriale pre/post ricovero, e i curanti interni alla clinica dove avviene il ricovero. Come detto sopra, il percorso di cura per l’addiction può prevedere il ricovero come un momento specifico collocato in una prospettiva temporale più ampia (in genere il ricovero dura da 2 a 3-4 settimane al massimo, mentre la cura per l’addiction si estende spesso per molti mesi o per anni): è evidente che non può avvenire senza una sua collocazione logica nel percorso complessivo di cura, cosa che deve essere concordata con i terapeuti esterni alla clinica: sono loro, infatti, che possono preparare correttamente il paziente, sostenerne la motivazione anche durante il ricovero grazie al precedente rapporto di fiducia, canalizzare dopo le dimissioni in modo proficuo i risultati ottenuti in clinica. Per questo, i terapeuti esterni e interni devono avere approcci alla patologia e strategie di cura compatibili o meglio ancora sinergici, per far sì che il ricovero supporti la gestione clinica complessiva. Sono quindi controindicati e da escludere i ricoveri estemporanei, fatti in modo isolato da una strategia terapeutica pre/post ricovero, magari attuati seguendo le promesse di interventi miracolosi.
Di seguito prendiamo in considerazione le principali situazioni in cui può essere utile attuare un ricovero; come si vedrà, sono tutte situazioni che presuppongono una attenta regia extraospedaliera.
Il ricovero ai fini diagnostici
L’addiction non è una condizione patologica che può essere isolata dal funzionamento fisiologico, psicologico, relazionale e sociale della persona. In alcuni casi la situazione clinica è fortemente influenzata da fattori confondenti, per cui non è chiaro se la fenomenologia che si osserva derivi esclusivamente dall’assunzione di sostanze psicotrope d’abuso o abbia anche altre radici. Questa valutazione è necessaria per poter orientare la terapia, che va diretta verso gli aspetti causali.
Anche se in parte è possibile discriminare gli elementi patogenetici in regime ambulatoriale, alcune volte gli elementi confondenti sono tali da consigliare un ricovero; l’uso intenso di sostanze, condizioni ambientali particolarmente compromesse e sfavorevoli, precedenti momenti critici non chiaramente collegati all’addiction, concomitanza di elevato stress o situazioni traumatiche, dubbi rilevanti sulla aderenza alla terapia o sull’inefficacia della terapia farmacologica in atto, sono meglio precisate, nelle loro conseguenze sul funzionamento della persona, se osservate quotidianamente da personale medico in regime di ricovero che offre un contesto delimitato e sterilizzato da alcuni fattori interferenti, la possibilità di valutare con esattezza cosa avviene in condizioni drug-free e la valutazione precisa degli effetti della terapia somministrata quotidianamente da personale infermieristico.
Questo tipo di ricovero consente di valutare eventuali disturbi psicopatologici o internistici associati e di mettere a punto la diagnosi e la terapia farmacologica più efficace, in modo da favorire un progresso più rapido in regime ambulatoriale. Generalmente, per queste finalità, sono necessari trenta giorni di degenza.
Il ricovero salvavita
In alcuni casi, l’addiction prenda una forma maligna e l’assunzione compulsiva e subentrante di sostanze diventa pericolosa per la sopravvivenza. Capita prevalentemente con le sostanze stimolanti e in particolare con il crack, ma può succedere anche con altre sostanze (alcol, oppioidi). In questi casi il pericolo di incidenti cardiovascolari con esiti fatali o gravemente invalidanti (ictus, infarti), di comportamenti rischiosi (guida in condizioni di alterata capacità di valutazione, coinvolgimento in situazioni di violenza, esposizione a comportamenti sessuali pericolosi o di violenza sessuale) o di altre situazioni critiche sul piano della sopravvivenza fisica (ad esempio: coma etilico, crisi di ipertermia, grave disidratazione e blocco renale, epatopatie fulminanti, psicosi indotte associate a convinzioni irreali come il poter volare o di tipo persecutorio) consiglia la messa in sicurezza della persona.
Salvo situazioni particolari, in genere si trova difficoltà ad eseguire un TSO, trattamento sanitario obbligatorio. La legislazione italiana e, ancora di più, la cultura sociale che viene interpretata dai medici non consente attualmente di intervenire contro la volontà del soggetto se non in una casistica molto selettiva. Pertanto, ci si trova spesso di fronte a situazioni in cui la persona si sta esponendo a rischi enormi con l’impossibilità di agire senza il suo consenso, il che crea grande angoscia nei familiari, che giustamente si risentono verso le strutture sanitarie, a loro volta molto in difficoltà tra il desiderio di salvare una vita e il timore di infrangere la legge.
Tuttavia, bisogna dire che nella grande maggioranza dei casi la persona interessata finisce per accettare il ricovero, rendendosi almeno in parte conto di ciò che sta avvenendo e chiedendo di essere messa in sicurezza.
In questi casi il ricovero ha durata variabile da pochi giorni a 10-15 giorni (salvo intercorrenti problemi cardiologici, neurologici, internistici o psichiatrici), avendo essenzialmente lo scopo di permettere alla persona di recuperare la lucidità necessaria per collaborare in modo più adeguato alla terapia ambulatoriale. Allo stesso tempo, durante il ricovero possono emergere altre necessità o svilupparsi nuovi progetti che possono far modificare la finalità del ricovero e quindi il suo decorso.
Il ricovero di sollievo
La convivenza tra una persona con problemi di addiction e la sua famiglia può essere molto faticosa: spesso l’addiction trae spunti da situazioni familiari disfunzionali o complica relazioni già difficili; a volte le dinamiche controllo-colpevolizzazione-protesta possono diventare dominanti nel quadro familiare.
Sopportare la tensione può diventare gravoso per tutti. In questi casi può essere consigliabile un periodo di “vacanza” che può essere utilmente impiegata in un ricovero per recuperare serenità e fiducia reciproca. In questo caso il ricovero è finalizzato a consolidare il percorso terapeutico, a sostenere la motivazione alla cura che può essere indebolita dai conflitti familiari, a recuperare una visione più oggettiva sulla situazione complessiva; utilizzando il periodo di ricovero per intensificare il supporto psicologico, la persona con addiction può acquisire strumenti più efficaci per fronteggiare la situazione esterna. La famiglia può sentire meno la pressione della responsabilità, ridurre l’allarme, riprendere fiato e, preferibilmente con un aiuto professionale, ritrovare motivazione sufficiente per assumere un atteggiamento più costruttivo e fiducioso.
In genere per questo tipo di ricovero è indicato un periodo di 3-4 settimane.
Il ricovero per un reset del percorso di cura
Il percorso accidentato della cura per l’addiction può alimentare stanchezza, demotivare, sensazione che nulla cambi, rassegnazione, con il rischio che la situazione si cronicizzi in uno stato che magari non è critico, ma non è neppure sufficientemente dinamico per fare ulteriori progressi.
In questo caso il ricovero può avere la finalità di resettare il percorso di cura, creare uno stacco e favorire il recupero di equilibrio e motivazione. Durante questo tipo di ricovero sono particolarmente importanti i contributi psicoterapeutici soprattutto a mediazione corporea e di meditazione (tipo mindfullness) al fine di ridurre l’impegno cognitivo e cosciente e favorire il “sentire” stati di benessere rinnovati.
Questo tipo di ricovero impegna circa 15-20 giorni.
Il ricovero per la disintossicazione e la messa a punto della terapia farmacologica
In alcuni casi la persona con addiction ha sviluppato una buona conoscenza del suo funzionamento, ha adeguati strumenti di tipo psicologico, una situazione ambientale favorevole ed è predisposta a distaccarsi dall’oggetto della dipendenza; tuttavia, il distacco completo alimenta ansia e un certo timore dello “sconosciuto” (l’addiction, negli anni, diventa una “seconda natura”) per cui fare l’ultimo passo per l’affrancamento dalla dipendenza può risultare difficile.
In questo caso, può essere indicato un ricovero per la cessazione dell’abitudine in un ambiente che possa far sentire protetti e rassicurati rispetto a qualsiasi imprevisto.
I protocolli farmacologici di disintossicazione sono diversi per le diverse tipologie di addiction e possono richiedere tempi diversi.
In altre situazioni può essere necessario intervenire precocemente con una disintossicazione, particolarmente nei casi di alcolismo e di uso di crack, per interrompere la pesante interferenza delle sostanze nelle capacità di collaborare alla terapia del paziente. Contestualmente, è opportuno mettere a punto una terapia farmacologica post-ricovero (per l’alcolismo, si può valutare anche il disulfiram) che protegga o minimizzi possibili ricadute.
Nel caso di dipendenza da benzodiazepine, il ricovero per la disassuefazione è indicato perché consente una cessazione rapida dell’assunzione grazie ad un particolare protocollo terapeutico che non è possibile effettuare a domicilio per la necessità di monitoraggio continuo (per il rischio di crisi convulsive). È possibile, così, modificare in tempi rapidi una situazione che richiederebbe, in regime ambulatoriale, diversi mesi di lenta riduzione con tutti i problemi che i tempi lunghi comportano in questi casi (ricadute durante lo scalare, eventi di vita che distolgono dall’obiettivo, eccetera).
Emanuele Bignamini