A guidare la sperimentazione Cristina Galassi, psicoterapeuta analista, responsabile dell’equipe clinica dello Ieud
A cavallo per combattere le dipendenze da social network e dispositivi digitali. Il progetto è nato all’Istituto europeo delle dipendenze (https://istitutoeuropeodipendenze.it/), un centro specializzato nell’aiutare a uscire dalle schiavitù da sostanze o da comportamenti compulsivi. A guidare la sperimentazione Cristina Galassi, psicoterapeuta analista, responsabile dell’equipe clinica dello Ieud.
Secondo una ricerca dalla ricerca condotta dal Movimento Etico Digitale, diffusa lo scorso febbraio, l’82% dei ragazzi italiani trascorre oltre 5 ore al giorno davanti agli schermi, incluso il tempo dedicato a telefoni, computer e smart Tv. Otto giovani su 10 del campione intervistato dedicano una porzione significativa della giornata all’interazione con dispositivi digitali: circa 3 mesi interi all’anno.
Dottoressa Galassi, come è siete arrivati a individuare il cavallo come strumento “terapeutico” per ragazze e ragazzi con dipendenze digitali?
“Lo stimolo che ci è arrivato dal centro equestre Unio (https://uniotraining.it/i) di Vicchio, in provincia di Firenze. Già da tempo i trainer di Unio conducono una osservazione sui cambiamenti che la frequentazione dei cavalli induce nell’uso dei device elettronici da parte dei giovanissimi. Cambiamenti che non riguardano tanto la quantità, il tempo trascorso davanti allo smartphone per intenderci, quanto la qualità dei contenuti fruiti in Rete. Grazie ad un genitore ci è arrivata la segnalazione di questa attività. Da parte mia c’erano anni di studi relativi al rapporto tra ‘animale umano’ e altri animali. Così abbiamo voluto condurre un approfondimento teorico sul tema”.
Cosa hanno osservato gli istruttori equestri?
“I materiali che mi ha fornito il centro mostravano il passaggio da un uso dei social network autoriferito, autocentrato, un po’ narcisistico e fine a se stesso, alla scelta di contenuti in cui il cavallo diventava il co-protagonista della relazione. E anche il modo di presentarsi dei ragazzi sui social diventava molto meno costruito e artefatto”.
Ci può fare un esempio?
“C’era una ragazzina che passava il tempo a fare dei selfie abbellendoli con degli emoticon, che nel mondo digitale trasformava il suo corpo o faceva dei balletti… niente di male, ma tutte cose molto solitarie, molto autoriferite, in cerca di conferme da parte di chi è aldilà dello schermo. Gradualmente è passata a mostrare il cavallo, il suo dedicarsi all’animale, le passeggiate fatte con lui”.
Cosa innesca questo cambiamento? E perché proprio il cavallo?
“La relazione con il cavallo è un mix di prendersi cura, avere paura, sentirsi forti: il cavallo mette in moto emozioni molto diverse che permettono una sorta di crescita emotiva, con parallelamente una presa di distanza da fragilità che per certi versi è naturale, ma che nell’uso dei device è potenzialmente dannosa. Le esperienze che si fanno usando il digitale sono senza confini, senza limiti nelle possibilità di azione. Nella realtà, invece, i limiti ci sono: cosa si può o non si può fare dipende dalle regole della società, ma anche dal nostro corpo: mi posso fare male. In rete in senso del limite è molto più difficile da sviluppare”.
E se si sale in sella invece?“Una volta a cavallo si diventa più alti, più forti, più veloci… ma si è sempre collegati alla realtà: se si cade ci si fa male davvero. Gestire la relazione con un cavallo significa saper gestire anche la paura, perché la si prova e supera. Con gli strumenti digitali tutto questo è più difficile”.
C’è però chi mette in dubbio la scientificità di questi approcci.
“In effetti, in letteratura c’è pochissimo. Anche perché non c’è niente di meno oggettivo e misurabile delle emozioni. Eppure lo squilibrio delle emozioni ha un chiarissimo ruolo in alcuni disturbi, dalla depressione all’autismo. E le emozioni hanno origine nella parte più antica del nostro cervello. Stare con un cavallo può aiutare perché i suoi comportamenti sono dettati proprio dalle emozioni e da un cervello antico: noi abbiamo molte altre capacità cognitive che il cavallo non ha, ma parliamo il suo stesso linguaggio emotivo. E tuttavia come si fa a provarlo scientificamente, misurando qualcosa? Come dimostro che i minori attacchi di panico di un ragazzino sono effettivamente collegati alla sua relazione con il cavallo? Questa è una difficoltà credo insormontabile”.
Visti i risultati positivi ottenuti a Vicchio e la vostra elaborazione teorica, come intendete procedere ora?
“Ci piacerebbe prendere contatti con altri centri equestri. Accendere i riflettori su questo tema e stimolare soprattutto chi lavora con i cavalli e con i ragazzi a portare avanti una ricerca: osservare ragazzi con queste problematiche e raccogliere sui cambiamenti nell’approccio al mondo digitale innescati dall’attività equestre”.
Lei è mai andata a cavallo?
“Sì. Conosco bene il rapporto tra esseri umani e questi animali e so cosa vuol dire stare in quel mix straordinario di emozioni”.
Fonte: La Repubblica