Sono frequenti i contatti con persone che ci chiedono di essere aiutate ad uscire da una dipendenza affettiva o che, quasi confusi, si e ci chiedono se davvero ne stiano vivendo una. Sappiamo bene come ogni relazione affettiva ci metta in qualche modo in un vissuto di dipendenza, e come questo sia, oltre che inevitabile, anche sano e normale. Ma quello che segue è un insieme di spunti raccolti da alcuni di questi incontri con donne e anche con uomini che si trovavano invece a vivere come intrappolati in relazioni dolorose, nelle quali a volte si sentivano spettatori impotenti, a volte attori principali. Una relazione tossica è un copione che si rappresenta insieme, anche se è quasi sempre uno solo dei partner che indossa il disagio, rappresenta il malessere, se ne fa carico e ne patisce maggiormente. Il partner più sofferente è quello che dà significato e forza al “dominante” che, in realtà, non troverebbe forza senza l’altro, nutrimento per i suoi tratti narcisistici.

Dipendenza e co-dipendenza: gioco sottile, fatto di inconsce conferme patologiche reciproche.

Si sta con qualcuno per cambiarlo, convinti che il nostro amore lo trasformerà e che finalmente saremo felici insieme. Se non si esce da questo copione, lo si ripete in una relazione nuova: si chiude la precedente e quasi senza accorgersene, si ricrea la medesima relazione anche se con una persona diversa. Spesso uno dei partner arriva da una famiglia di origine molto conflittuale, dove le dinamiche emozionali erano cariche di tensione, rabbia, imprevedibilità.

Alla radice di questi vissuti esiste spesso una qualche forma di trauma, anche lieve, ma che non si è stati in grado di comprendere ed elaborare nel momento in cui è accaduto, che resta come cristallizzato dentro e che si cerca inconsciamente di risolvere riattualizzandolo nel presente. Per quanto possa sembrare razionalmente assurdo o incomprensibile, in modo inconscio stiamo ripercorrendo una strada che, per quanto dolorosa, almeno conosciamo. Non in grado di modificare quello che abbiamo vissuto, cerchiamo inconsciamente di farlo ora, di riparare; ma è impossibile riparare quando ciò che si prova, alla fine, è rabbia. L’altro ci fa arrabbiare, disperare, perché non ci ama abbastanza, non ci cerca abbastanza così, quando ci si incontra, il flusso emotivo che scorre tra i partners si colora di rabbia, rancori, delusioni. Poi basta un momento diverso, un giorno trascorso in serenità, ed ecco che torniamo ciechi e sordi, come se ogni volta perdessimo la memoria e ci illudessimo che questo sarà un nuovo inizio, mentre è solo un sollievo momentaneo.

La rabbia allora potrà implodere dentro e farci sentire “non abbastanza”: l’altro rimarrà solo se sarò abbastanza dolce, disponibile, amabile, seduttiva, comprensiva. Ci si abitua e si cerca quella eccitazione dolorosa, quel sottile senso di trionfo e potere quando l’altro comunque torna, ci cerca, rimane con noi: è come una conferma che giustifica tutto. Il passare dal vuoto ansiogeno all’eccitazione per il “suo” ritorno è qualcosa di potente, a livello dei nostri funzionamenti profondi. In alcune situazioni, la presenza dell’altro è talmente necessaria e vitale che quando il partner esce dalla porta si spalanca un vuoto dentro, si prova un’ansia abbandonica indipendentemente dalle parole con cui l’altro si è allontanato. Anche se positive, anche se l’incontro è stato un momento piacevole, l’ansia comunque si riacutizzerà, perché “non basta più”, abbiamo ancora più bisogno dell’altro, proprio perché questa volta siamo stati “davvero bene”. Nelle forme di dipendenza da sostanze questo si chiama tolleranza: è quel fenomeno che porta a consumare sempre di più, ad aumentare la dose, perché l’assuefazione alla droga alza l’asticella che controlla la gratificazione ottenuta dall’uso.

Allora magari si cercano amici con cui parlare della propria sofferenza e del proprio dolore. Ci conoscono, ci vogliono bene, ci ascoltano, ma dopo esserci svuotati con loro di parole ed emozioni spesso restiamo sordi ai consigli che quasi sempre ci danno, perché la sofferenza che comunichiamo porta a cercare di dare sollievo. Quello che poi in realtà spesso accade è che, sollevati da questo sfogo che ha trovato ascolto e comprensione, siamo pronti per ricominciare perché, alla fine, abbiamo la sensazione che solo noi sappiamo come muoverci, siamo noi che conosciamo l’altro, solo noi possiamo capire il nostro partner (e giustificarne il comportamento).

E così accade che gli amici si stanchino, non ci riconoscano o capiscano più; il deserto intorno a noi si allarga, e quella relazione rimane definitivamente l’unica fonte a cui attingere la forza per esistere. L’astinenza (dall’altro) fa così male tanto da sentirla anche nel corpo, proprio come accade con una droga. Uscire da una dipendenza affettiva significa intraprendere un difficile percorso dentro e fuori di sé: recuperare e recuperarsi. È necessario andare a scoprire e conoscere i propri affetti profondi, quelli che strutturano la nostra personalità e andare a riprendere un senso di sé anche nelle piccole azioni quotidiane, dando dignità e rispetto a quella Vita che viviamo, e che fino ad ora sembrava svuotata e priva di senso senza “un Altro”; una vita dove ogni giorno diventa una conquista, un tassello che compone la nostra presenza al respiro della Terra.

Cristina Galassi

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