L’addiction come habit

L’addiction è una condizione che coinvolge tutti gli aspetti della vita della persona e che diventa un “habit”, uno schema consueto, familiare pur nella sua drammaticità, che si consolida nel tempo.

È uno schema mentale e comportamentale: coinvolge e condiziona il modo di pensare (ad esempio sostiene pensieri come “in fondo lo fanno tutti”, “non è poi un problema così importante”, “posso controllare la situazione da solo”, “per una volta, non è un problema”, “ho bisogno di un momento di evasione”) e fissa comportamenti che diventano riti, come bere la sera “per rilassarsi”, o addirittura modalità obbligatorie, come la necessità di assumere stimolanti per poter stare in situazioni di “divertimento”.

Pensieri e comportamenti, nel caso dell’addiction, non sono abitudini superficiali, ma l’espressione di un profondo reset della persona, per la quale il rapporto con la sostanza e la modulazione degli stati d’animo che ottiene con l’assunzione diventa una dimensione strutturante del suo funzionamento.

Cambiamento e razionalità

Il cambiamento delle abitudini in generale, e in particolare di quelle radicali come l’addiction, non è cosa facile: non abbiamo di fronte una “malattia” medica in senso stretto, che può essere risolta tecnicamente, come lo stimolo a tossire quando si ha una bronchite che può essere controllato con farmaci specifici; e non si tratta di una scelta volontaria, come potrebbe essere cambiare la strada che facciamo d’abitudine per andare in un luogo se troviamo troppo traffico.

Dobbiamo quindi considerare che il cambiamento, nel caso dell’addiction, ha caratteristiche particolari, sta in una dimensione che non è completamente controllabile con la tecnica e neppure con la ragione. L’addiction è già un cambiamento, una trasformazione della persona nei suoi aspetti affettivi profondi, preverbali e pre-razionali e nella sua biologia e non è con interventi che stanno su piani meno profondi che si potrà compensare la potenza del legame con la sostanza e indurre un nuovo equilibrio.

In genere, amiamo pensarci come esseri razionali in grado di controllare con la volontà e l’intelligenza noi stessi e il mondo che ci circonda. Di conseguenza, preferiamo pensare che le scelte, soprattutto se sono scelte importanti per la nostra vita, avvengano dopo una analisi razionale e sulla base di elementi oggettivi.

Questa convinzione è stata ampiamente smontata da importanti e solidi studi (per chi è interessato, si consiglia almeno la lettura di “Pensieri lenti e veloci” di D. Kahneman, libro molto accessibile e appassionante): facciamo molta difficoltà ad accettarlo, ma le scelte fondamentali della nostra vita (legarsi ad un partner, fare un lavoro, investire i soldi, votare un partito) sono basate su sensibilità e preferenze emotive (oltre che su opportunità contingenti non programmate da noi), piuttosto che su accurate e fredde valutazioni, quando non sono addirittura sostenute da errori cognitivi, o da meccanismi automatici di cui non siamo consapevoli, da illusioni, da interpretazioni di aspetti particolari. La razionalità interviene solitamente a posteriori, e costruisce a cose fatte le “ragioni” che sostengono la scelta. È stato dimostrato con test neurofisiologici che la parte del nostro cervello in cui si svolge la dinamica delle motivazioni emozionali si attiva molto più rapidamente e conclude il processo decisionale prima di quella in cui hanno sede i processi razionali: la decisione consapevole (decido così) avviene sempre e per tutti dopo quella pre-razionale (sento che preferisco così).

Questo funzionamento apparentemente non ottimale ha una logica, se ci ricordiamo che siamo un prodotto dell’evoluzione dei mammiferi (ricordiamo che il 98,5 del nostro DNA è lo stesso dello scimpanzè, che solo 45.000 anni fa erano presenti sulla Terra cinque specie di Homo e che abbiamo ancora nel nostro corredo genetico i codici di un antico corallo, l’Acropora Millepora, che ha dato l’avvio alla filogenesi animale). In quanto prede da una parte e predatori dall’altra, la velocità reattiva è fondamentale: uno stimolo sensoriale fugace deve essere seguito da una immediata attività motoria (riflesso) senza passare dai centri nervosi superiori perché ne va della vita e della morte, della possibilità di sfuggire a un predatore oppure di catturare la preda. Questa capacità è ancora adesso utile: è quella che ci permette di evitare ostacoli improvvisi in auto prima ancora di averlo “visto” coscientemente, di prendere al volo qualcosa che cade, di proteggerci il viso da qualcosa che ci arriva contro prima ancora di esserci resi conto di ciò che sta succedendo.

Ma non solo è ancora utile: è tuttora dominante nel nostro funzionamento quotidiano, come dimostrato da molti studi, quando facciamo le cose scioltamente e senza particolare concentrazione, perché è un modo di funzionare economico, che consuma poca energia. E in un mondo di persone sempre affaticate e che hanno poco tempo, è sfruttata a piene mani dal marketing e dalla pubblicità. Che cosa fa preferire un prodotto ad un altro, se non aspetti (il colore, il confezionamento, l’esposizione) che di solito non c’entrano niente con l’utilità razionale dello stesso, ma che “ispirano” il consumatore? E quante cose si acquistano senza una reale necessità, solo perché “qualcosa” ci ha motivato? Un famoso pubblicitario (F. Beigbeder) affermava “farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma”. Gli economisti che si occupano degli indici della “felicità sociale” invece che del PIL (Stefani Bartolini, per citare un italiano) hanno chiaramente dimostrato che è la sensazione di insoddisfazione, che è uno stato emotivo e non uno stato di bisogno concreto, che regge il mercato dei consumi, e non la necessità razionale e programmatica di un prodotto.

Certo, con l’istruzione, l’educazione e la cultura è possibile spostare il nostro funzionamento più a favore della razionalità, anche se è faticoso: bisogna fermarsi e non correre, dare tempo ai pensieri più lenti e non solo dispiegare le ali degli impulsi, leggere le etichette dei prodotti invece di buttare nel carrello, ragionare sulle conseguenze delle nostre azioni, essere fermi nelle proprie scelte anche se non riscuotono l’ammirazione del pubblico.

Il mito di un cambiamento che avviene razionalmente, sulla base di dati evidenti, che si muove verso qualcosa di positivo, programmato in modo controllabile e prevedibile, piegando ogni resistenza con la forza delle sue ragioni inoppugnabili, deve essere abbandonato.

Il cambiamento, soprattutto quando, come nel caso dell’addiction, coinvolge in modo così profondo e totalizzante la persona, attinge a motivazioni affettive, che riguardano il senso della propria vita, richiede lo sviluppo di un desiderio, deve confrontarsi con ambivalenze e resistenze, deve essere aperto ad ogni tipo di esito, anche non previsto e non desiderato, può avere un effetto rivoluzionario su tutto il sistema coinvolto, modificando gli equilibri non sempre come ci si aspetta. Il risultato è probabilistico, non aritmetico, e l’avvicinamento ad esso è empirico, per prova ed errore, non meccanico.

Motivazione e ambivalenza

Dovrebbe risultare comprensibile, da quanto sopra, che la persona che affronta un progetto di cambiamento rispetto alla sua condizione di addiction possa essere ambivalente: da una parte ci sono le motivazioni razionali che la porteranno a considerare gli svantaggi e i pericoli del continuare con il suo comportamento, dall’altra c’è il legame con la sostanza che oltre a tanti guai offre anche consolazione e sollievo come forse nient’altro offre;  una parte di sé vorrà senz’altro poter cambiare, desiderando qualcosa di “meglio”, un’altra parte avrà timore di cambiare e di trovare solo difficoltà, frustrazioni e dolore.

Va ricordato che il cambiamento, anche quando potrebbe teoricamente portare un “miglioramento” (concetto quanto mai relativo e scivoloso: ci sono infinità di modi di considerare il “meglio”), trova sempre una resistenza, che è quella della paura dell’incognito; la saggezza comune che afferma che “chi lascia la via vecchia per la nuova sa cosa lascia ma non sa cosa trova” descrive bene come cambiare significhi affrontare l’ignoto, lo sconosciuto, che, in quanto tale, non si può dire prima se sarà davvero vantaggioso. Questo vale anche per le situazioni in non si sta bene: lasciare un lavoro frustrante, un partner conflittuale, uno stile di vita dannoso non è mai così immediato e facile, anche se sarebbe logico. E vale anche l’addiction, se abbiamo compreso come essa costituisca una condizione di equilibrio, certamente patologico, ma funzionale per la persona: senza la sostanza come gestire certe difficoltà, come trovare un momento di libertà dalle oppressioni quotidiane, come gestire certe situazioni con gli altri o certi stati d’animo? Se ci si troverà “scoperti” come si potrà fare fronte al pericolo di perdersi, di scompensarsi, di non farcela?

Certo, vista dal di fuori, che una persona dipendente si preoccupi di questo sembra paradossale, dato la droga è effettivamente un problema e non una soluzione. Ma per comprendere l’ambivalenza e le difficoltà a cambiare bisogna sentire che la droga è anche una soluzione, per quanto paradossale, a qualcuna delle difficoltà della persona.

Noi affermiamo che l’addiction sia fondata sullo scambio “felicità per piacere”: la ricerca di soddisfazione nel senso profondo della vita (la possibilità di relazioni generative con gli altri e con il mondo) è abbandonata a favore della possibilità illusoria di provare sensazioni gratificanti grazie ad una manipolazione chimica che è apparentemente sotto il proprio controllo.

Il termine “scambio” assume diversi significati. Innanzitutto, si riferisce all’equivoco, cioè al fatto che il piacere della droga, le intense sensazioni che offre a fronte delle sensazioni della vita “normale” ritenute troppo scialbe, venga inteso come qualcosa di così appagante da poter sostituire pienamente la necessità di cercare altro nella vita; si genera così l’equivoco che quella sotto l’effetto della droga sia la vera vita, che così si viva davvero, e che la normalità senza droga sia una non-vita.

In secondo luogo si riferisce alla deviazione, come fa lo scambio ferroviario, per cui un percorso viene indirizzato verso altra meta e invece di cercare realizzazione nel proprio progetto ci si dirige verso la costruzione di un sé fittizio; una volta presa una nuova strada non è facile tornare indietro e soprattutto non è possibile ritrovarsi al punto di deviazione senza perdite: la consapevolezza di aver perso tempo, opportunità, affetti, stima e autostima e altro ancora, mette in una condizione depressiva che paradossalmente cristallizza il comportamento disfunzionale.

In terzo luogo, si riferisce allo scambio mercantile, dove una persona profondamente sofferente e delusa (per gli eventi di vita che gli sono occorsi) cede, sfiduciata e pessimista, la sua possibilità di realizzarsi nel mondo in cui non crede più, per avere in cambio almeno un po’ di piacere, un “paradiso artificiale”.

Abbiamo a che fare, dunque, con equivoci del sentire e del pensare, con perdite che sembrano irrecuperabili, con una svalutazione di sé, con un sentimento depressivo di assenza di speranza.

Rendersi conto e tenere ben presenti questi aspetti può aiutare sia la persona con addiction sia i suoi partner e conviventi a rendersi conto di quanto sia importante e impegnativa l’impresa di cambiare e quindi a prenderla seriamente, con pazienza e con costanza. Certamente aiuta il terapeuta a valorizzare la relazione terapeutica come lo strumento fondamentale per dare speranza, sostegno, motivazione senza scoraggiarsi degli insuccessi, senza perdere la fiducia nella possibilità, per chi ha sperimentato l’addiction come per chiunque altro, di cercare, con soddisfazione, il senso della propria esistenza.